Onorevoli Colleghi! - A tutti è noto come la famiglia e le politiche che la riguardano siano attualmente al centro di un dibattito che coinvolge il Paese fuori e dentro le Aule parlamentari. È innegabile che la fisionomia della famiglia italiana sia notevolmente mutata rispetto a qualche decennio fa e che se ne possano definire varie tipologie. Tra queste dovrebbe essere inserita anche la «famiglia divisa», quella, vale a dire, in cui è venuto meno il vincolo coniugale - per separazione, divorzio o riconoscimento della nullità del matrimonio - ma che continua in maniera diversa a esistere in virtù della presenza dei figli. Il principale problema che si pone al momento in cui la famiglia si scinde è quello della definizione del nuovo assetto e della costruzione delle regole all'interno di essa, che avviene tipicamente attraverso una trattativa tra le parti. Questa incontra non poche difficoltà, principalmente a causa del momento di particolare tensione in cui viene affrontata, per cui si è cercato da tempo di individuare strumenti mediante i quali agevolarla. Il più efficace tra questi è senza dubbio la mediazione familiare, che è stata ampiamente sperimentata e che riceve crescenti consensi in tutti i Paesi del mondo occidentale, essendosi dimostrata in grado di contenere la conflittualità nelle separazioni, con l'ulteriore conseguenza, di non secondario conto, di alleggerire notevolmente il carico di contenzioso che grava sui tribunali. Della mediazione familiare è sostenitrice, difatti, la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, là dove impegna i Paesi firmatari a promuoverne l'effettiva praticabilità

 

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(articolo 13): «Per prevenire e risolvere i conflitti, ed evitare procedimenti che coinvolgano minori dinanzi ad un'autorità giudiziaria, le Parti incoraggiano la mediazione o ogni altro metodo di soluzione dei conflitti, nonché la loro utilizzazione per concludere un accordo nei casi appropriati determinati dalle Parti».
      Coerentemente, una risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa (n. 616 del 21 gennaio 1998, punti 7-11) ne ha caldeggiato presso i Paesi membri l'introduzione e la promozione.
      Quanto alla legislazione italiana, aldilà di una formale adesione alla citata Convenzione, con la legge di ratifica 20 marzo 2003, n. 77, il passaggio alla fase applicativa è stato finora assai carente. Dopo un timido accenno nella legge 28 agosto 1997, n. 285, più marcate indicazioni sono date ad essa nella legge 4 aprile 2001, n. 154, sulla violenza domestica, che tuttavia si pone in contraddizione con i princìpi generalmente accettati per le condizioni di applicabilità della mediazione familiare stessa.
      Si giunge così, infine, al 2006, ovvero al momento in cui il legislatore accoglie richieste popolari a favore di una genitorialità condivisa (da parte di associazioni di mediatori familiari e di genitori, come l'associazione «Crescere Insieme»), attraverso la legge 8 febbraio 2006, n. 54, recante «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli», che introduce un'importante novità nella disciplina della separazione e del divorzio, spostando il punto di osservazione dall'interesse degli adulti a quello dei figli e sforzandosi di adottare ogni accorgimento che possa ridurre la conflittualità tra i genitori e di incentivare la loro capacità di collaborazione. L'articolo 155 del codice civile (sostituito dalla citata legge n. 54 del 2006) fissa, infatti, un principio per certi versi ovvio, e tuttavia a lungo ignorato: «Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale» e a tale fine l'articolo 155-bis del medesimo codice detta le condizioni di derogabilità dall'affidamento condiviso, stabilendo, al primo comma, che: «Il giudice può disporre l'affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore»; mentre al secondo comma il medesimo articolo disincentiva strumentali polemiche per escludere un genitore dall'affidamento, affermando che pretestuose accuse sarebbero valutate negativamente dal giudice sotto il profilo della distribuzione dei tempi e dei compiti e potrebbero addirittura condurre alle conseguenze di una lite temeraria. Allo stesso tempo l'esistenza di rancori tali da rendere impossibile una gestione del figlio a «mani unite» viene affrontata evitando la rassegnata soluzione dell'affidamento esclusivo attraverso la possibilità di un esercizio separato della potestà - che non rende necessarie frequenti e rischiose interazioni dei genitori.
      Questa, tuttavia, resta una soluzione di ripiego che salva la bigenitorialità, ma che rinuncia al fruttuoso dialogo dei genitori nell'interesse del figlio.
      Affinché, dunque, le finalità della legge siano pienamente realizzate si pone il problema di aiutare i genitori ad uscire da una conflittualità che si autoalimenta, tenendo separati dal ruolo genitoriale e rendendo ininfluenti su di esso i motivi di rancore che nascono dalla fine del rapporto di coppia.
      A questo scopo, all'articolo 155-sexies, secondo comma, del codice civile (articolo anch'esso introdotto dalla citata legge n. 54 del 2006) ha dato un'indicazione verso un intervento di tipo mediativo, affermando che il magistrato possa, anche nel corso della prima udienza di comparizione, rinviare l'adozione dei provvedimenti di cui all'articolo 155, anche se provvisori, «per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli».
 

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      Come si vede la norma non utilizza esplicitamente l'espressione «mediazione familiare», così come non caratterizza la professionalità degli «esperti» chiamati all'intervento, tanto che non è mancato chi ha inteso vedervi inclusa l'attività del conciliatore.
      È pertanto evidente la necessità di un intervento strutturato, specificamente mirato alla definizione dell'intervento di mediazione familiare e del profilo professionale del mediatore, così come è accaduto per l'affidamento condiviso, la cui disciplina normativa è stata il frutto degli studi e delle sollecitazioni dei medesimi enti (si veda ad esempio Marino Maglietta «L'affidamento condiviso dei figli», Franco Angeli, Milano, 2006). La presente proposta di legge, quindi, si prefigge essenzialmente i seguenti obiettivi, validi non solo per tutelare la categoria dei mediatori familiari, ma anche per garantire gli utenti: 1) valorizzare il ruolo della mediazione familiare all'interno del processo civile, in tutte le cause attinenti alle questioni familiari precedentemente elencate; 2) definire la figura del mediatore familiare, stabilendone i contorni e le funzioni professionali; 3) fissare i lineamenti di una formazione specifica, che si caratterizzi per il ruolo e per la peculiarità della funzione.
      Nell'ambito di tali obiettivi, l'articolo 1 segnala i motivi di interesse per lo Stato alla promozione e alla diffusione della mediazione familiare.
      L'articolo 2, a sua volta, al comma 1 fissa le modalità di svolgimento della mediazione familiare, attenendosi alla definizione più largamente accolta dalle associazioni che operano attualmente nel settore, mentre al comma 2 stabilisce, con analoga ispirazione, le regole per la formazione e per l'attività dell'operatore della mediazione.
      L'articolo 3 istituisce l'Associazione dei mediatori familiari, alla quale hanno facoltà di iscriversi, nella fase transitoria, quanti hanno conseguito il titolo di mediatore familiare al termine di corsi strutturati secondo i parametri dettati dal Forum europeo di formazione e ricerca in mediazione familiare, mentre, a regime, hanno facoltà di iscriversi quanti hanno frequentato positivamente i corsi di formazione istituiti ai sensi della legge.
      Il comma 2 dell'articolo 3 attribuisce all'Associazione il compito di stabilire i criteri che disciplinano i corsi di formazione e di specializzazione e le modalità di verifica e di controllo sull'attività dei mediatori ad essa iscritti e sui citati corsi.
      L'articolo 4 disciplina l'organizzazione di tali corsi attribuendone la competenza alle università, agli enti locali (regioni, province e comuni) e alle aziende sanitarie locali, nonché a centri privati, a condizione, valida per tutti, che a coordinare i corsi sia designato un mediatore iscritto all'Associazione e che i corsi medesimi rispettino i parametri da essa stabiliti.
      L'articolo 5 disciplina la programmazione degli interventi a sostegno delle famiglie in crisi che utilizzano la mediazione familiare, attribuendo specifici compiti agli enti locali.
      Di particolare importanza, nella presente proposta di legge, è il riferimento alle associazioni e agli enti privati, essendo ben noto che è in tale ambito che la mediazione in Italia ha avuto il principale sviluppo. Il legislatore intende, dunque, utilizzare preziose risorse già esistenti, pur lasciando all'utenza la libertà della scelta degli operatori e, al tempo stesso, valorizzare il ruolo di quei gruppi che già da anni, subordinando l'iscrizione degli associati alla verifica di un'adeguata formazione e alla sottoscrizione dell'assicurazione per la responsabilità civile professionale, svolgono di fatto un ruolo di garanti della professionalità della figura del mediatore familiare anche nei confronti dei cittadini che vi si rivolgono.
 

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